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Quali sono le professioni del futuro legate all’intelligenza artificiale?

Quando nel 1950 Alan Turing pubblicò sul suo articolo “Computing machinery and intelligence”, il modo per capire se una macchina poteva essere definita intelligente, ai più sarà parso di star sentendo un personaggio uscito dal film di 40 anni prima Metropolis, che fantasticava su computer e robot di sorta.

Tuttavia, Turing fu precursore di un sentimento indiscreto che cominciava a nascere nelle persone. In una cornice post-bellica dove si stava ricostruendo una società, alcuni cominciavano a chiedersi se quelle macchine gigantesche in grado di elaborare grandi quantitativi di dati, fossero anche in grado di pensare.
In questo scenario di curiosità e studio, si svolge quella che nella storia della IA è cerchiata in rosso, ovvero la Darthmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence, nel 1956, a cui parteciparono tra i vari Claude Shannon, principale pensatore della teoria dell’informazione e John McCarthy, che oltre ad aver inventato il linguaggio LISP (linguaggio di programmazione), ha coniato il termine intelligenza artificiale.

Per molto tempo lo studio delle macchine ha rafforzato la loro potenza di calcolo e creato alcuni macchinari in grado persino di giocare a scacchi, come il famoso Deep Blue che riuscì a battere il campione del mondo in carica Garry Kasparov. Dopo un periodo “sopito” negli anni ’80, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha avuto un nuovo turbo andato di pari passo con lo sviluppo dei computer, fino ad arrivare al 2011 quando la Stanford University aprì un corso online denominato Artificial Intelligence, che contò da subito 160mila iscritti, diventando il primo MOOC (Massive Open Online Courses) di successo contribuendo a riportare in auge un discorso pensato fino a quel momento elitario.

Ad oggi, quello che viviamo attraverso ChatGPT o siti affini a cui noi affidiamo delle parole chiave che vengono tramutate in progetti grafici, copy e varie ed eventuali, è la punta dell’iceberg di un movimento gigantesco della IA. È un ambito affascinante quanto esponenziale, tanto da destare la preoccupazione e lo studio di molte persone, dalla lettera aperta sul futuro della IA firmata tra gli altri anche da Elon Musk e Stephen Hawking, allo studioso Raymond Kurzweil che teorizzò una crescita talmente veloce di questo strumento tale da poter creare una singolarità tecnologica, ovvero un cambiamento della civiltà che avviene così rapidamente da non essere compreso dalle generazioni precedenti: tutto questo, nel 2050.

L’IA è un insieme di tecnologie e processi in grado di elaborare grandi quantità di informazione per restituire sintesi o previsioni complesse e razionali. Ci sono vari modi per istruire o guidarne una, che di base rispondo ad un codice immesso in una grande centrale di calcolo: l’algoritmo.
In passato era il LISP sopracitato, oggi sono svariati e ognuno con un compito specifico; avrete sicuramente sentito parlare di Python e Java, e altro non sono che un insieme di parole chiave e di regole, che consentono la programmazione di un elaboratore affinché esegua compiti predeterminati. In parole povere, è il “linguaggio” dei computer, come se dovessimo tradurre una cosa in una persona di un’altra lingua.
I chatbot, ad esempio, sono degli esempi di robot che vogliono “imparare” la nostra lingua, visto che sono programmati per capire il linguaggio umano e convertirlo in informazioni. Questo processo si chiama NLP o Natural Language Processing, sistemi che traggono informazioni non solo da codici ma anche da dati o documenti di input.

Benché sembra di parlare di fantascienza, il futuro è già qui: basti pensare che il 54% delle strategie aziendali a lungo termine delle imprese comprende obiettivi legati all’automazione e alla digitalizzazione, ma sta avendo largo utilizzo anche nella prevenzione delle frodi, dove l’analisi di un gran numero di transazioni permette di svelare le tendenze nelle frode, oppure nell’ambito sanitario dove è già utilizzata per l’organizzazione dei dati, delle app dedicate ai pazienti e nella diagnosi medica, oppure per automatizzare le attività di routine, come l’emissione delle buste paga, l’intelligenza artificiale sta trasformando anche la selezione del personale. L’IA può essere impiegata per il lungo processo di preselezione dei profili dei candidati, per snellire alcune burocrazie. Vista la facilità con cui una IA ragiona e tende a catalogare e a razionalizzare le situazioni, molti cominciano a “temere” di poter essere sostituiti da questa nuova tecnologia, la cosiddetta IA anxiety. Quanto c’è di vero?

Goldman Sachs afferma che il 18% del lavoro a livello globale potrebbe essere svolto dalle sole IA, e che i due terzi delle posizioni lavorative attuali sono esposte ad un certo grado di automazione dell’IA, quantificando questi numeri, circa 300 milioni di impeghi.

La trasformazione digitale cambierà alcuni lavori, sicuramente, e in generale si pensa che ne potrà creare altrettanti, ma ci sarà sempre bisogno di un input umano. Infatti, le aziende devono soprattutto dotarsi di figure professionali in grado di traghettarle nell’era dell’industria 4.0.

Per questo sono sempre più richieste professioni legate all’AI. Tra queste troviamo: gli ingegneri di machine learning e i data scientist, figure spesso complementari, consentono di definire i modelli di AI e interpretare i risultati ottenuti, in modo da aiutare le aziende a prendere decisioni intelligenti in relazione agli obiettivi di business prefissati; gli specialisti hardware per l’intelligenza artificiale sono figure professionali responsabili della creazione di hardware necessari per l’applicazione dell’AI; il programmatore informatico è un vero e proprio architetto del digitale che scrivendo e testando le stringhe di codice, costruisce le basi e i pilastri che reggono la realtà virtuale.

Nella maggior parte dei casi, è richiesta una laurea per le posizioni di livello base con una specializzazione in informatica, intelligenza artificiale, robotica, ingegneria o un campo correlato.