Fast fashion: Sostenibilità e Inquinamento dell’industria della moda

Dopo aver parlato del Green Consumption Pledge, affrontiamo oggi la questione del fast fashion e della sostenibilità nell’industria della moda.

Dalla sua istituzione, il Green Consumption Pledge ha visto l’adesione di undici aziende pronte a fare da apripista sulle questioni legate alla sostenibilità. Tra le società aderenti, ben due hanno a che fare con l’abbigliamento: H&M e Decathlon.

Quella dell’abbigliamento è una delle industrie con il maggiore impatto sul pianeta, sia in termini di carbon Footprint che di produzione di scarti destinati alla discarica o all’inceneritore. Sono le caratteristiche stesse di questa industria, così come è pensata oggi, a renderla tanto problematica.

Fast Fashion e inquinamento, una corrispondenza diretta

La proliferazione del fast fashion ha avuto un impatto ambientale senza precedenti. Con il raddoppio della produzione negli ultimi 20 anni a fronte di un aumento della popolazione di solo il 28%, l’industria della moda va evidentemente ripensata in ottica circolare e sostenibile. Basti pensare che, rispetto al 2000, nel 2014 si sono acquistati a livello globale il 60% di abiti in più e che la durata della vita degli abiti si è dimezzata. D’altro canto le aziende della moda, che nel 2000 offrivano due collezioni l’anno, nel 2011 ne offrivano ben cinque, con picchi di ventiquattro l’anno per un’azienda come Zara e dodici per H&M.

L’aumento della produzione, possibile grazie alle pratiche di outsourcing, mira a rendere disponibile nel corso dell’anno una buona varietà di taglie e modelli per far fronte alla richiesta. In questo modo, a fine stagione, restano sugli scaffali grandi quantità di invenduto che vanno smaltite con ingente danno ambientale e spreco di risorse. Si stima che ogni anno ben l’85% dei tessili prodotti finisca in discarica.

A fronte di questi dati è evidente come il Fast Fashion sia responsabile di ben il 10% delle emissioni serra sul pianeta, per non contare lo sfruttamento e l’inquinamento delle acque, altro grande problema spesso sottostimato. Si stima che il 20% dell’inquinamento delle acque derivi dai processi di tintura e lavorazione dei tessuti.

A questo riguardo è Illuminante il report 2020 Interwoven Risks, Untapped Opportunities di CDP sull’inquinamento delle acque legato all’industria della moda dal quale si evince che oggi manca ancora la consapevolezza dei rischi ambientali legati a questi processi industriali.

Fibre naturali e sintetiche. Inquinano allo stesso modo?

Che si tratti di produzione di tessuti naturali o di tessuti in fibre sintetiche, l’impatto ambientale è decisamente alto.

La coltivazione di cotone, infatti, è responsabile dell’utilizzo del 16% di tutti i pesticidi usati in agricoltura a livello globale. Per non parlare dell’acqua che richiede il ciclo di vita di un capo in cotone dalla pianta al negozio. Secondo il Water Footprint report, infatti, il cotone è, tra le fibre tessili, quella che consuma più acqua.

Per quanto riguarda i capi sintetici, occorre distinguere tra semi sintetici e sintetici.

Le fibre semi sintetiche sono quelle che derivano da fibre naturali trattate con processi chimici, come il rayon o la viscosa. L’utilizzo nel processo di trasformazione di sostanze chimiche dannose come l’acido solforico, e il grande processo di disboscamento legato alla loro produzione, le rendono molto impattanti sull’ambiente.

Le fibre sintetiche come il nylon e il poliestere, d’altro canto, sono derivate dal petrolio e hanno un altissimo impatto ambientale dall’estrazione del greggio fino allo smaltimento dei capi a fine vita. I costi energetici, lo sfruttamento dell’acqua, e le problematiche legate allo smaltimento sono solo la parte visibile dell’inquinamento prodotto da questo tipo di fibre. Il lavaggio dei tessuti sintetici è infatti la maggiore causa di inquinamento da microplastiche che si stima costituisca il 31% dell’inquinamento da plastica degli oceani.

Riuso riciclo e riduzione della produzione

Da quanto appena detto si evince che l’impatto ambientale dell’industria della moda, in particolare di quella del fast fashion, sia estremamente grande, e questo a prescindere dal tipo di fibre utilizzate. Danni di diverso tipo derivano dai differenti tessuti ma il problema maggiore viene sicuramente dalla sovraproduzione con i conseguenti costi economici ed ambientali per lo smaltimento.

Una industria che produce ben più del necessario in un’ottica ormai usa e getta e che fa affidamento sullo smaltimento a fine vita non è e non può essere ritenuta sostenibile.

Le azioni da intraprendere per cambiare questa situazione sono molte, a partire da nuove strategie mirate ad una riduzione della produzione e incentrate sull’intelligenza artificiale e su modelli predittivi delle richieste. Ridurre la produzione senza creare carenze di stock, giungendo ad una produzione più consapevole e attenta, potrebbe diminuire alla base l’impatto ambientale.

Per quanto riguarda il discorso del fine vita dei capi di abbigliamento, la questione è complessa e merita di essere trattata adeguatamente.

Incidere sulle abitudini dei consumatori e sulla loro ottica usa e getta prolungando il tempo di vita degli abiti è sicuramente una via da intraprendere. Occorre anche agire incrementando pratiche virtuose di riuso e riciclo.

Un Paper recentemente pubblicato dal professor Piergiuseppe Morone in collaborazione con la dott.ssa  Gülşah Yılan e  la dott.ssa Ana Gabriela Encino-Muñoz della università nazionale di Città del Messico indaga le problematiche legate all’industria tessile.

Affrontando nello specifico la pratica del “Global North” di esportare abiti usati nel resto del mondo,  il paper “Transition to a Circular, Sustainable, and Equitable Fashion Industry in a Global North/South Perspective”, nella rivista Africa e Mediterraneo, offre una visione alternativa alla narrativa vigente che vede nelle esportazioni di abiti usati una pratica virtuosa di riuso. L’analisi fatta dagli autori si incentra sul concetto di pollution shifting: con la pratica di esportare gli abiti di seconda mano il Global North esporta anche la problematica legata allo smaltimento e il conseguente inquinamento. Un sistema a tutto vantaggio delle economie dominanti mascherato da pratica virtuosa che va rivisto in favore di un sistema più equo.